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Perché i pazienti in età pediatrica sono più resistenti al Covid

Alexandra Semjonova baby wellness foundation

Nuove ricerche confermano che nei primi anni di vita l’organismo appare maggiormente protetto dalle manifestazioni provocate dal nuovo coronavirus SARS-CoV-2.  Ci sono molte ragioni per una possibile ridotta suscettibilità del bambino a sviluppare manifestazioni cliniche e/o malattia grave in corso di infezione da SARS-CoV-2. I bambini  presentano generalmente condizioni respiratorie ottimali prima dell’infezione, dal momento che non sono esposti al fumo attivo e hanno meno frequentemente malattie croniche concomitanti che, qualora presenti non sono rappresentate delle patologie tipiche dell’adulto che si sono dimostrate essere associate a maggiore severità di COVID-19 (diabete, cardiopatia ischemica, broncopneumopatia cronica ostruttiva, ipertensione arteriosa).

Molti degli studi relativi alla suscettibilità all’infezione a alla malattia da SARS-CoV-2 si sono però concentrati sulla modalità con cui il virus infetta la cellula ospite e, in particolare, sul suo recettore principale, ovvero l’ACE2- enzima espresso in molti organi, compresi i polmoni (soprattutto negli pneumociti di tipo 2 a livello alveolare). Tuttavia il ruolo di ACE2 nella fisiopatologia della malattia non è ancora completamente chiarito e non è ancora noto se un incremento o una riduzione della sua espressione possano influenzare, e in che modo, la sua storia naturale. Infatti, era stato inizialmente supposta una ridotta espressione di ACE2 nei bambini come principale causa della ridotta suscettibilità alla malattia, ma in modelli animali è stato dimostrato, invece, che il numero di recettori ACE2 espressi nel polmone diminuisce con l’età. Tuttavia, è stato segnalato che i bambini di età inferiore ai 10 anni esprimono meno recettore ACE2 nella mucosa nasale che rappresenta la principale porta di ingresso del virus.

La minor propensione a sviluppare manifestazioni cliniche in corso di alcune infezioni virali potrebbe essere collegata “all’immunità addestrata” (“trained immunity”) e ciò è alla presenza di cellule dell’immunità innata (T linfociti e cellule NK) che diventano “cellule di memoria” dopo esposizione ad antigeni rappresentati sia da quelli somministrati in occasione delle vaccinazioni, sia da quelli relativi alle frequenti infezioni respiratorie tipiche dei primi anni di vita. Infatti, nei bambini con sintomi da SARS-CoV-2 è stato dimostrato come le percentuali di linfociti nel sangue periferico rimangano fondamentalmente nell’intervallo di normalità di testimonianza di una disfunzione immunitaria minore. Queste fenomeni potrebbero spiegare la maggiore gravità della malattia segnalata nel primo anno di vita. Ad avvalorare questi dati c’è anche un recente rapporto dalla Mayo Clinic riguardante un’indagine effettuata su 137.000 persone nella zona di Rochester in cui si segnala che aver effettuato una qualunque vaccinazione nell’anno che ha preceduto l’insorgenza della pandemia esercitava un certo effetto protettivo che riguarda il rischio di infezione da nuovo coronavirus con un effetto particolarmente evidente per le vaccinazioni con virus vivi attenuati. Anche l’effetto immuno-modulante della vitamina D  nonché la sua maggior concentrazione nei primi anni di vita potrebbe giocare un ruolo determinante in questo ambito.

È stato segnalato in alcuni studi che i bambini al di sotto dei 10 anni d’età potrebbero potenzialmente contrarre meno frequentemente l’infezione. Una recente metanalisi su 32 studi (18 studi di tracciamento dei contatti e 14 studi di screening sulla popolazione) comprendente 41.640 bambini e adolescenti e 268.945 adulti, ha concluso che i bambini e gli adolescenti hanno una minore suscettibilità a SARS-CoV-2, con un odds ratio di 0,56 per essere un contatto che si infetta rispetto agli adulti e, i risultati degli studi di screening sulla popolazione confermavano una siero-prevalenza inferiore nei bambini rispetto agli adulti, nonostante la siero-prevalenza negli adolescenti fosse simile a quella degli adulti. Tre degli studi inclusi nella metanalisi sono stati eseguiti sui contatti nelle scuole, rilevando una trasmissione minima da casi indice di bambini o insegnanti, a dimostrazione del fatto che la trasmissione del virus si può ridurre efficacemente quando si osservano le classiche regole di prevenzione (mascherina, distanzia-mento, lavaggio delle mani) come si verifica normalmente in ambiente scolastico una volta in classe mentre tutto ciò che avviene prima e dopo l’ingresso in aula è storia a sé.

In ogni caso  la prevalenza di casi asintomatici in età pediatrica ha una stretta correlazione con l’incidenza della malattia nella popolazione generale, a dimostrazione del fatto che nella stragrande maggioranza dei casi il bambino viene contagiato dai conviventi adulti e a sostegno del fatto che il soggetto adulto infettato non dovrebbe essere isolato in ambiente domestico quando le caratteristiche dell’abitazione non lo consentano ragionevolmente (sovraffollamento, un solo bagno, analfabetismo funzionale degli adulti).

 

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